giovedì 24 febbraio 2011

Two gust is megl che one

Ho vissuto l’adozione come un percorso molto complesso, che si è materializzato un paio di anni fa nel bambino che mentre scrivo gioca sul tappeto, accanto a me.

Le recenti discussioni intorno alla notizia della sentenza della Cassazione, che si dice abbia aperto uno spiraglio alle adozioni da parte dei single, mi ha indotto a considerarne le implicazioni.

Il casus belli della signora di Genova che si è rivolta alla magistratura meriterebbe di essere approfondito sul piano giuridico.

Ciò che tuttavia i giornali hanno riportato, manipolando e semplificando un po’ i fatti, è che la Cassazione avrebbe esortato il Parlamento ad esprimersi a favore delle adozioni ai single alzando la palla a tutti coloro che “quando c’è l’amore c’è tutto”. Credo che la questione non si possa ridurre ad un facile sentimentalismo.

Noi genitori adottivi, e prima ancora i nostri figli, dobbiamo necessariamente fare i conti con una mancanza, con il vuoto interiore che l’abbandono subìto ha generato nel bambino. E, non neghiamolo, dobbiamo anche guardare con onestà ad una genitorialità biologica (spesso) mancante.

Il bambino abbandonato è una persona interiormente annientata che noi genitori adottivi possiamo aiutare nel ricomporre i pezzi della sua storia contribuendo a reinterpretarla in un’ottica non distruttiva.

Nessuno può permettersi di negare la potenzialità affettiva ed educativa di una persona solo perché non sposata, tuttavia è indubbio che un contesto familiare in cui coesistono in maniera continuativa il maschile e il femminile può dare ad un figlio una maggiore stabilità affettiva e formativa unitamente alla possibilità di avere entrambi i modelli sessuali di riferimento.

E se per ogni bambino la stabilità è importante e rassicurante (quante volte si fanno raccontare la stessa storia o vedono lo stesso cartone…), per un bambino con un vissuto complesso e martoriato è fondamentale.

Non a caso la legge prevede come presupposto per avanzare domanda di adozione non solo l’essere sposati ma esserlo da almeno tre anni. Questo ulteriore vincolo ci fa comprendere che il senso della legge non è, dunque, fare felice il Papa ma, ovviamente, avere una garanzia in più sulla stabilità del legame tra i genitori potenziali.

Immagino mio figlio a vivere in casa con un uomo solo. Immagino quest’uomo intessere nel corso degli anni relazioni affettive con partner diversi. Immagino la fatica di mio figlio nel costruire legami nuovi che poi inesorabilmente verranno rescissi, con un coinvolgimento emotivo e una sofferenza inimmaginabili.

Immagino poi mio figlio vivere con una donna sola, lui che da quando è nato ha visto solo donne: suore, puericultrici, assistenti sociali, psicologhe. Lui che quando siamo andati al mare la prima volta guardava i corpi degli uomini con stupore misto a paura. Lui che osserva mio marito e si fa una fantasia di ciò che diventerà da grande. Lui che ha grande bisogno di essere accolto ma anche contenuto.

Ipotizziamo dunque l’adozione aperta ai single: è pensabile che sia indifferente che l’adottante sia un uomo o una donna? Vogliamo veramente far credere che tutto è uguale, maschio o femmina, uno o due?

Inoltre, nella quasi totalità dei casi, il bambino adottato vive con la madre adottiva un rapporto estremamente conflittuale, proiettando in lei il dolore patito per essere stato lasciato dalla madre naturale e, in questo terreno infuocato, sapeste come è importante la triangolazione con un padre che sappia mitigare gli scontri e mediare nella relazione madre-figlio.

E ai molti che affermano che per un bambino è meglio un genitore solo che l’istituto (spesso sono gli stessi che vorrebbero un percorso “più snello” anche per le coppie sposate) rispondo che questa osservazione apparentemente lapalissiana, nasconde un paio di inganni gravi: innanzitutto, la negazione della complessità della realtà interiore dei bambini abbandonati e l’idea che, in fondo, basta dargli benessere economico per farli felici; e poi che i bambini adottabili siano bambini di “serie B” che invece di avere diritto a ciò che per altri bimbi è naturale, devono pure sapersi accontentare.
È da sempre che lo fanno, per sopravvivere.

Credo sia anche importante precisare che se molti bambini sono in istituto non è necessariamente perché mancano le coppie disposte ad adottarli, ma spesso è perché hanno una situazione familiare indefinita che le istituzioni tentano di recuperare prima decidere che il tempo è maturo per inserire definitivamente il bambino in una famiglia adottiva e dargli una madre e un padre.

Una madre cui chiedere di punto in bianco di fare “il gioco della pancia”, mettersi sotto la maglietta e “farsi piccolo” per poi uscire contento. Ma solo dopo che il papà gli ha accarezzato la testa mettendo la mano sul pancione. Come da copione.

(il post è di Stefania Falsini)